domenica, settembre 20, 2009

Agriturismo ad Acquaviva Picena


Tre giorni di settenbre trascorsi in questa bella località delle Marche in questo agriturismo posto in posizione periferica rispetto al paese, ma vicino alla strada per Offida (vedi foto sopra), bellissimo centro un poco più all'interno.
Avevo cercato un agriturismo con piscina e aria condizionata, anche se costava un po' di più perché so che in settembre l'Adriatico è spesso capriccioso e inoltre l'afa di agosto mi aveva veramente stancato e già dormire fuori dal proprio letto può essere seccante se poi si soffoca dal caldo c'è da rovinarsi le vacanze.
La piscina era verde di alghe,

inutilizzabile, l'aria condizionata ha funzionato la prima sera, nelle successive no, ma quel chè stato peggio: la finestra non aveva persiane, solo scuri e niente tende, quindi o dormire al piano terra con la finestra spalancata, in bella vista, o dormire in un sarcofago. Nota positiva: hanno un impianto solare per scaldare l'acqua e stanno costruendo un impianto fotovoltaico. Probabilmente nella stagione più fresca sarà più confortevole.
Spero.
La donna che dovrebbe fare le pulizie in camera ci ha chiesto: "Ha bisogno che faccia le pulizie?" il cui ovvio corollario era: "Siete così zozzoni che devo venire a pulire la stanza?" Ovviamente le si ha risposto :"No grazie", visto che avevamo appena fatto colazione e costei sembrava che volesse andarsene dopo averci preparato il caffelatte, nota positiva: le brioches erano buone, anche se ne erano state calcolate una e mezza a testa di media.
Il ristorante "La Paesana" degli stessi proprietari dell'agriturismo, è risultato buono e a prezzi contenuti, ma anch'esso non ci ha fatto la ricevuta fiscale.

sabato, agosto 22, 2009

Kamikaze esploso in auto

Durante una coda lungo l'autostrada del sole in provincia di Crotone, è esplosa un'auto, dalle prime risultanze degli esperti, pare che si trattasse di un tentativo di attentato ad un noto campeggio nudista, presso cui il kamikaze, che aveva mangiato per otto giorni solo fagioli, aveva prenotato un bungalow in muratura onde fare il più danni possibile.
L'esplosione pare si sia verificata a causa dei ritardi nel viaggio non preventivati e a causa delle foderine sintetiche dei sedili dell'auto, che hanno dato luogo ad una scintilla proprio durante il movimento di riassestamento su entrambe le natiche dopo un'emissione di gas effettuata dal soggetto per allentare la tensione intestinale.
nessun altro ferito, ma il viadotto su cui viaggiava il kamikaze è stato chiuso per accertamenti.

domenica, agosto 02, 2009

Val di Funes

Da un paio di settimane un vecchio amico, ora in carrozzina per la sclerosi multipla, mi ha chiesto di accompagnare lui e la sua fidanzata, che non ha patente, in Val di Funes, dove trascorreranno un paio di settimane, l'andata era prevista per mercoledì 29 luglio. La notte precedente, all'una e mezza, mi sveglia un dolore tra il petto e la scapola sinistra, il mio innato ottimismo mi fa subito escludere l'infarto, ma, cercando una posizione confortevole, arrivano le quattro, alle sei e mezzo, mentre faccio colazione mi accorgo che un herpes attenta al fascino del mio labbro inferiore, alle sette esco di casa e vado a prendere la sua fidanzata, alle otto siamo dal mio amico.

Mentre io scarico i suoi bagagli dalla mia auto, la fidanzata sale a prendere le chiavi del box, dove ci aspetta l'auto della sorella del mio amico che è più grande della mia e permette di caricare la carrozzina.

Così faccio lo scambio delle auto e, dopo avere sistemato i bagagli, mentre il mio amico commenta come "macchinosa" quella partenza, partiamo per la Val di Funes dove arriviamo alle tredici.

Dopo pranzo, anche a causa dell'herpes, dormo tre ore filate e la sera alle dieci e mezzo crollo di nuovo.

La mattina dopo alle nove riparto e arrivo a Milano verso la una, sto per andare a scambiare le auto, quando mi rendo conto della situazione paradossale in cui mi trovo, le mie chiavi del suo box sono a casa mia e le mie chiavi di casa, per non girare con peso "inutile" le ho lasciate nella mia auto, nel suo box. Aspettando di trovare una soluzione vado all'IKEA a prendere un po' di fresco e intanto faccio qualche telefonata, non è molto fresco e quando finalmente trovo una soluzione e voglio uscire in fretta, per andare a prendere le chiavi di riserva di casa mia da mia sorella, maledico tutti gli svedesi che hanno progettato quel labirinto.

Alle 15 e 15 mi trovo, diretto a Milano, sulla via Lorenteggio quando, a un semaforo verde, la macchina davanti a me improvvisamente frena e senza che sappia come e perché la tampono, quella, una Mercedes classe A, a sua volta tampona una Toyota RAV e questa a sua volta tocca una Alfa Romeo 147.

Sul momento sembra che nessuno si sia fatto niente, solo una bambina che si è spaventata nella Mercedes piange in braccio alla nonna, passa un'ambulanza che, vedendo piangere una bimba, a fianco di macchine ferme per incidente, si ferma a sua volta, in seconda fila, in una strada a di traffico intenso, dopo qualche minuto arrivano i vigili di Corsico e la nonna e il conducente della Toyota cominciano a dare segni di dolenzia: chi al fianco e chi al collo, i vigili chiedono se l'ambulanza li può portare al pronto soccorso, ma loro dicono che bisogna chiamare il 118, perché soltanto loro possono decidere chi può intervenire, così arriva una seconda ambulanza che porta via gli infortunati. Mentre la bimba, indenne, viene portata a casa dal padre, accorso nel frattempo.

Allora i vigili , che avevano ritirato i documenti di tutti gli automobilisti e delle auto coinvolte, procedono a fotografare i danni e a stendere i verbali in un furgone "ufficio", la nonna della Mercedes torna dal pronto soccorso, e le testimonianze sue, del conducente dell'Alfa Romeo e mia ci accompagnano fino alle 17.25, quando, con una multa per mancato rispetto della distanza di sicurezza, vengo cortesemente congedato.

Per fortuna la Skoda si muove senza problemi e così, dopo altre tre mezze traversate della città (prendere le chiavi di casa mia da mia sorella, prendere a casa mia le chiavi del box del mio amico, andare a casa sua per scambiare le auto e ritorno a casa) riesco ad arrivare al mio divano da dove comincio a fare relazioni telefoniche dei danni al mio amico, a sua sorella e al marito della sorella, sono stati tutti molto cortesi e comprensivi, più preoccupati della mia incolumità e di altri eventuali feriti che non dei danni, ma nel caso sia sfuggito: la temperatura di quel giorno a Milano era di circa 34 gradi con alta umidità relativa.

giovedì, luglio 16, 2009

Il Gran Norcino si esprime sulla legge sul testamento biologico

Il Gran Norcino si esprime sulla legge sul testamento biologico

Il Gran Norcino della Chiesa Maialista Occidentale si esprime sulla legge sul testamento biologico, in esame attualmente in Parlamento, con un comunicato molto duro che le principali agenzie di stampa stanno cercando di ignorare, ne riportiamo perciò i passi principali pensando di fare cosa utile.

“Se non avessimo la possibilità in ogni momento di porre fine alla nostra vita terrena, come ci è stata donata dal Verro, si metterebbe in atto una bestemmia “ipso facto”, in quanto proprio la possibilità di rifutare un dono caratterizza il dono, altrimenti trasformato in obbligo e ponendo fine al concetto stesso di libero arbitrio e di libera scelta, di libera adesione al messaggio di comunione e di fratellanza tra tutti i mammiferi che si abbeverarono alle mammelle della Scrofa, Madre di tutte le madri.”

“Il concetto di “libero arbitrio”, che la Chiesa Maialista Occidentale ha in comune con quella Orientale e con molte altre Chiese, verrebbe messo in pericolo dalla legge in esame proprio nel momento in cui l’individuo, privato della possibilità di agire in proprio si affida ad altri, alla società, per meritare o meno la sua vita ulteriore o la sua ascesi, privandolo della possibilità di portare alle sue estreme conseguenze le sue scelte, lo si priva della possibilità di meritare o meno la vita ulteriore o l’ascesi”

La Chiesa Maialista Occidentale e quella Orientale, divise su questioni formali sono però sostanzialmente unite su quelle teologico-etiche, ci si attende a breve, secondo fonti vicine al Gran Norcino di Taipei, una considerazione di solidarietà in merito da parte dell’Assemblea dei Norcini Orientali.

mercoledì, luglio 08, 2009

Contro l'esproprio del diritto alla vita

"Contro l'esproprio del diritto alla vita", può sembrare una contraddizione, ma se la legge in discussione alla Camera in Italia toglie la possibiltà di decidere in merito alla idratazione e nutrizione del proprio corpo in condizione di non più esprimersi e rifiutarsi fisicamente, evidentemente la vita diviene un "dovere" e con ciò si afferma un esproprio del "diritto alla vita" negando proprio un concetto alla base del cristianesimo il cosiddetto "libero arbitrio".

martedì, giugno 30, 2009

In morte di M.J.

Non era davvero vivo

Forse non lo era mai stato

Non poteva quindi morire

Non poteva davvero morire

Inventarsi una vita

Acquistare una razza,

Un naso e una faccia

In regalo non aveva accettato

Che una voce ed un canto

Non era stato mai bimbo

E bimbo ha voluto restare

Aveva comprato una stirpe

Cercando l’eterno in un grembo

Che aveva soltanto affittato

Avrebbe voluto astrarsi volare

Così in astratto durare.

Milano 29 Giugno 2009

lunedì, giugno 29, 2009

Il commiato

Sono restato così, stupito,
a pochi metri da un corpo morto,
chè la vita il mare s’era preso,
lì a fianco siamo rimasti tutti,
lì, in costume, silenziosi,
noi si guardava il mare,
e chi lo interrogava tacendo,
chi, invece, parlando l’ascoltava.
Abbiamo atteso, insieme a lui,
il commiato dal mare in una bara.
Milano 28 Giugno 2009

mercoledì, giugno 10, 2009

La badante, la badata e la figlia liberata

Donna, ferita, sanguinante,
nella casa in cui esiliata,
lavoravi in nero, badante,
sei morta dimenticata,
temevi un nuovo esilio,
nessuno ti ha sentito
accedere al martirio
sull’altare costruito,
per sentirsi padroni,
con legge insipiente,
da immemori coglioni,
fuori non sei niente
dentro, tu sei, nascosta,
per la figlia della badata,
la carriera, preposta
alla madre malata.
Ma è più spesso l’uomo
che affida la madre
alla badante illegale,
è più spesso l’uomo,
che le affida il padre,
dopo averle negato
l’ingresso legale.
Dopo avere votato.

venerdì, giugno 05, 2009

Vergognarsi di essere italiano. Berlusconi e il suo governo mi causano un grave danno esistenziale.

La difficoltà di riconoscersi in una nazione la cui classe dirigente esprime al peggio le pulsioni della parte peggiore della società. Ecco un motivo di grave depressione che sta minando la mia salute, le mie difese immunitarie sono ai minimi, sono preda di orzaiuoli, di infezioni alle unghie, mi vengono calli che non ho mai avuto, yoghurt e cracker mi danno la gastrite. Sarà possibile fare causa alla compagine di governo per danno esitenziale?

martedì, aprile 28, 2009

Sui colli della Val d'Aso 1955

Il paese non aveva che una sola strada che, a spirale, saliva dalla Porta alla spianata intorno alla Torre.

La Torre dell’orologio non è mai stata un campanile, fu costruita nel 1831, al centro dell’antica rocca, di cui altro non resta che le fondamenta delle mura, inglobate nelle case intorno alla spianata di sassi incuneati con cura.

Era, la spianata, come un’enorme aia leggermente convessa su cui si aprivano le porte delle case che dominavano il paese e, tra queste, la bottega del falegname e quella del fornaio erano alle estremità del lato esposto a sud.

C’era in quella disposizione un’antica saggezza, l’uno aveva il forno sempre acceso e il suo fumo salendo dalla cima del colle non avrebbe disturbato nessuno, l’altro, pur stando a distanza dal fuoco del fornaio, avrebbe disturbato meno, rumoreggiando nella sua bottega, lì sulla cima, ché, come si sa, anche il suono “a cono sal nell’àere”, inoltre erano, quelle di quel lato del piazzale, le uniche facciate ariose e soleggiate del paese, essendo le altre sulla stretta e ripida via che lì menava dalla Porta.

Altre botteghe aprivano le loro porte sulla via, nell’ombra, c’era il barbiere, in un locale a smalto color burro, e, quasi in fronte a lui, c’era la “privativa” dei tabacchi e dei bolli, di pochi giochi e dei quaderni, con al suo fianco l’osteria, il padrone era lo stesso e passava, da un ruolo all’altro, da una stretta apertura nel muro che le divideva, attraverso una cortina di catene d’alluminio, insieme all’odore del vino rovesciato e stantio che sempre intorno gli aleggiava.

Un poco più avanti, dove una strada usciva dall’abitato verso una chiesa e quindi al cimitero, c’era il macellaio e intorno l’odore di sangue che sempre ristagnava. Era, la chiesa, molto più nuova del resto del paese, aveva cinquanta o cento anni, mentre la struttura del paese, la più antica, quella delle case a strapiombo con le mura sulle pendici aspre del colle aveva fondamenta tra i mille e i cinquecento anni addietro.

La costa dell’ascolano ebbe gli ultimi suoi pirati a saccheggiarla nel 1815, ma, fino ad allora, dai Liburni, che contesero ai Romani l’Adriatico, ai Narentani, che combatterono i Veneziani per circa cinque secoli, ai Barbareschi e agli Uscocchi, non vi fu generazione, su queste coste, che non conobbe qualche razzia.

Così, dall’esterno, il paese sembrava una Torre di Babele: dalle rocce scabre salivano semi-pilastri di pietra e di mattoni che, disuguali, si univano in arditi archi, nelle rientranze, a fare da base a un piano superiore di muri-pilastri irregolari, tra cui, ogni tanto, qualcuna aveva come un terrazzino a cui scendeva dall’alto una scaletta e una colombaia o un alveare stavano a sfruttare lo stretto spazio tra la roccia e il vuoto, più sopra un altro piano correva, disuguale, di pilastri di pietra e di mattoni ancora, ad alti archi congiunti, e qui i pollai avevano più aggio, forse due metri, a loro stava sopra un piano quasi continuo, ma di diversa altezza, di archi e pilastri di mattoni, le volte più basse si aprivano su loggiati scuri e più profondi, a volte chiusi da un muro con una piccola finestra, erano, in fine, le cantine delle case, che gli crescevan sopra con altri quattro piani, o cinque, di finestre strette, sulla valle, ma con solo due, o tre, fuori di terra, sulla via.

Di là dalla strada, verso monte, un’altra fila di case aveva tre o quattro piani, quanto bastava perché l’ultimo piano vedesse l’orizzonte, sopra la cinta più esterna, ma non erano, queste, grandi case, ad onta dell’altezza, non avevano che una stanza per lato, a fianco della scala e, dietro, il monte.

Sopra di esse, fondendosi con i loro tetti saliva, come una cupola, la roccia liscia su cui ergeva le sue antiche mura la Rocca e dal suo centro la Torre, fino al mare, gettava sguardi inquieti.

In quel paese scabro, di pietre e di mattoni, pochi, di coppi non rossi ma grigi, o gialli di licheni, nella sua strada che dalla chiesa menava fino a casa, versai il mio sangue dalla gota imberbe. Giocando a marito e moglie, con la mia prima fidanzata “seria”, avevo trovato una lametta da rasoio vicino a un tombino e, specchiandomi nel secchio accanto alla fontana, beato mi radevo serio serio, finché si tinse del mio sangue il secchio, quattro anni mi sembrarono pochi per morire così, solo per gioco, corsi ricordo fino a casa, ma non era niente, la nonna mi sapeva coccolare, mi fece lo zabaione con il pane!

Era un paese che si sapeva divertire: lungo la strada, ripida, in discesa, una volta all’anno c’era la gara dei “carrozzi”, trappole con ruote di fortuna, che i ragazzi costruivano per la corsa e quasi sempre finivano distrutte.

Ma quel paese aveva per me un “bonus” sopra ogni cosa, il falegname era mio zio e in quella sua bottega ho conosciuto il legno e la sua vena, come la pialla l’accarezza, oppure lo scheggia, e che non dura il chiodo oltre un momento, che per un falegname la vite è un’offesa al legno, altro non serve che la colla e un buon incastro.

Conobbi, dalla sua cantina, scendendo ancora, l’ebbrezza di una vertigine impossibile, avendo una ringhiera malferma sopra il vuoto, conobbi l’Orsa Minore, conobbi che nulla esiste di assoluto.

Ebbi conoscenze tramandate di generazione in generazione di bambini, su come fare esplosivi con zucchero, zolfo, carbone e pillole per il mal di gola.

Resta per me, quel borgo, un luogo della conoscenza che sono orgoglioso d’avere tanto amato.

Milano 27 Aprile 2009

lunedì, aprile 20, 2009

“48” O’ Sismologo

L’istituto di sismologia era chiuso e in tutta la città universitaria l’unica luce accesa era quella dello studiolo al terzo piano, dove il computer ronzava e ogni tanto tossicchiava.
Arnaldo Tomato si era appisolato, aveva aperto il cassetto basso di sinistra, per appoggiarci le gambe, quello alto a destra, per la testa e si era fatto una specie di amaca con la poltroncina del tecnico mentre il computer faceva le veci delle cicale, non fosse stato per il solito sogno, con quello stronzo del suo professore di educazione artistica che commentava i suoi disegni chiamandolo arnaldo pomodoro e gli diceva di spremersi di più, che quello non era un succo degno di Arnarldo Pomodoro, ma di Arnaldo Broccolo…
Ma infine verso le 3.30 il computer tacque e dopo un istante, come una madre all’improvviso silenzio, si svegliò Arnaldo e subito mosse il mouse per riattivare lo schermo.
Il mouse si era intorpidito, o era la sua mano? Comunque riuscì a scorrere il foglio di calcolo fino alla fine e lì in grassetto appariva la previsione, accurata al 67%, nel giro di 300 ore, in base alle misurazioni che aveva effettuato nella zona dei Campi Flegrei e alle solfatare di Pozzuoli, si sarebbe verificato un terremoto di magnitudo tra 5,5 e 7,1 che avrebbe potuto anche causare dislocamenti tettonici tali da innescare anche una successiva eruzione del Vesuvio. In realtà l’eruzione avrebbe anche potuto riguardare l’area dei Campi Flegrei direttamente, ma per sapere quale dei due vulcani si sarebbe più probabilmente svegliato ci sarebbe stato bisogno di una campagna di rilevazioni più estesa.
L’adrenalina scorreva veloce, gli sembrava quasi di sentire le contrazioni delle ghiandole surrenali, ma probabilmente era solo il sonno sull’”amaca”. Doveva subito avvertire la Protezione Civile, e il Prefetto, non c’era tempo da perdere.
Ma, già c’era stato il caso di quel sismologo che aveva preannunciato un terremoto in Abruzzo ed era stato denunciato per procurato allarme…
Inoltre aveva usato le sonde dell’istituto al di fuori dei suoi compiti istituzionali, senza il placet del Professore…
Lui doveva stare attento a come si muoveva era un piuccheprecario, era quasi un abusivo, il Prof ogni tanto gli faceva fare delle perizie che poi firmava e gli passava la metà dell’onorario, che poi era un bel regalo gli diceva, visto che lui aveva tutti soldi esentasse in nero e le tasse, anche per la sua parte, le pagava il Prof.
Non se ne veniva fuori, altro che cattedra e finalmente mettere su casa con la sua “zucchina” qui c’era da perdere anche quel poco.
Ma quanta gente viveva sulle falde del Vesuvio, su quei palazzi costruiti su quegli intrecci di pilastri, come nidi su cespugli, quanta si sarebbe riversata sulla disastrata viabilità, quanti ancora vivevano abusivi nelle case con il decreto di inagibilità ormai illeggibile sulla porta, nei vicoli con le travi che tenevano su una casa appoggiandosi a quella di fronte e via, come un infinito porticato o un castello di carte?
Quante case erano state rialzate a ogni condono di un altro piano? E lui, era meglio lui, che saputo dal cugino del condono “arrivando”, aveva fatto due locali sul terrazzo di zia Cettina, promettendole che non l’avrebbe lasciata morire di cancro, ma che le avrebbe comprato quattro dosi e l’avrebbe aiutata a iniettarsela e poi non ne aveva avuto il coraggio, e l’aveva vista spegnersi, mentre tormentata dal dolore si mordeva a sangue le guance per non urlare e lo guardava ormai non più implorante, solo dispiaciuta.
Sapeva quello che zia Cettina non gli aveva mai detto, sapeva quello che lei pensava: suo cugino, il figlio di zia Cettina, era stato un “omo” lui era solo un ragazzo e lo sarebbe sempre stato; suo cugino, quando il padre era stato ferito in un conflitto tra contrabbandieri, a soli sedici anni era andato in ospedale e aveva ammazzato il feritore e adesso era a Poggioreale con un rene in meno a causa di una rissa e altri quindici anni per lo stesso motivo, ne aveva ammazzato uno e quasi sgozzato un altro.
No non aveva la stoffa dell’eroe, così aveva solo sprecato gli ultimi 25 fine settimana, aveva litigato con Fabiana tante di quelle volte…
Lo scoramento gli fece un groppo in gola, ingoiò lacrime di frustrazione e catarro che non sapeva di avere.
Tutti i sacrifici dei suoi genitori, sua sorella che si era sposata quell’imbecille di Ottaviano per andarsene di casa perché era gelosa di tutte le speranze di riscatto che i loro genitori riversavano su di lui, tutto inutile.
Non poteva fare niente per i suoi concittadini, non è che meritassero molto, è vero, ogni volta che andava a gettare la spazzatura e vedeva tutto buttato alla “sanfasò”: carta, vetri, lattine, teste di pesce; gli veniva una rabbia…
Ma il suo fallimento, essere così vicino…
No, non poteva continuare a macerarsi così, doveva fare qualcosa di costruttivo!
Subito, prima che arrivassero i colleghi!
Aprì il suo c/c e il deposito amministrato e con la leva finanziaria mise ordini per “future” su azioni di tre società che producevano cemento, poi cancellò il programma e se ne andò a dormire.

Milano 7 Aprile 2009

Erminia e le tentazioni della carne (Racconto in cinque capitoli)

Capitolo I
Il secondo matrimonio

La festa non era appena cominciata, durava da tre giorni, ma, in fine, quella sarebbe stata l’ultima sera, non ce la faceva più. Oramai si vedeva che, tranne gli ultimi arrivati, erano tutti stanchi.
Così ebbe un momento di pausa e poté guardarsi in giro senza continuare ad annuire e rispondere, farfugliando, nel suo improbabile francese, a domande e apprezzamenti che non capiva.
La mensa faceva quasi il giro del cortile, si interrompeva solo accanto alla piccola fontana che irrigava l’orto della menta, quattro metri quadrati proprio davanti all’ingresso della casa, come un baluardo profumato agli odori della città. La fontana buttava poco, ma l’avevano disposta in modo che l’acqua facesse un rumore di ruscello, nelle cadute tra le due vaschette alte per le abluzioni del viso di uomini e donne e prima di raccogliersi nella vaschetta bassa, per i piedi, per poi disperdersi tra le alte piante di menta.
La casa era una tipica casa da clima caldo, chiusa all’esterno, come un convento, si apriva verso la sua corte interna su due piani, con un porticato per piano, su tutti e quattro i lati, ma era sovrastata da un terrazzo solo sul corpo principale, quello di fronte all’ingresso, dove abitavano i genitori di Wadi, qui da tre giorni, con le anche doloranti, Erminia era seduta a presenziare a questa sua festa di matrimonio.
Quando aveva acconsentito a fare due matrimoni, con due feste, una dai suoi a Zocca, sull’Appennino modenese e una ad Agadir, sulla costa atlantica del Marocco, dai genitori di Wadi, aveva immaginato che sarebbe stato faticoso, ma tre giorni accosciata la stavano mettendo a dura prova.
Stanotte sarebbe finita, l’indomani sarebbero partiti tutti gli invitati, probabilmente i saluti si sarebbero effettuati in piedi, avrebbe voluto chiederlo a Wadi, ma un dubbio, un piccolo dubbio di avere torto, le consigliava di restare nell’incertezza, alimentando così la speranza.
Wadi bello e dolce come il sole d’estate tra i rami di un fico, si volgeva a tutti con attenzione, sorridendo con il cuore a parenti che quasi non conosceva, aprendo la chiostra dei suoi denti, perfetti e splendenti alla luce delle lampade a gas, distribuite lungo la mensa apparecchiata sul lastricato del cortile coperto di tappeti.
Con Wadi non aveva potuto che scambiare poche parole da quando erano arrivati, la macchina della festa era già partita e gli sposi era d’uso che non si ritirassero da soli neppure per dormire, in quei tre giorni.
Averlo così vicino, eppure così lontano da una vera intimità era un supplizio.
Chissà? A casa, in Italia, non passava giorno che non facessero l’amore almeno ogni sera, appena si vedevano, poi spesso più tardi, qui da tre giorni non era stato possibile, si immaginò che avesse i testicoli gonfi e si accorse che solo pensandoci si era bagnata. Quale alchimia di sensi si scatenava tra loro? Chissà che potenza di energia orgonica si sarebbe potuto ricavare dai loro amplessi, si ritrovò a sorridere tra sé e accorgendosene cominciò a ridere, si ricordò che Wadi gli aveva raccomandato un contegno riservato, ma cominciò a tremargli la pancia per lo sforzo di soffocare il riso. Wadi colse il suo sguardo d’aiuto e le andò vicino aiutandola ad alzarsi, poi l’accompagnò in un bagno del piano superiore ed entrò con lei.
Finalmente soli, furono a lungo sciolti nelle braccia l’uno dell’altra, sordi e muti.
Un bussare leggero e una voce di bambino li riportarono al qui e ora, solo allora si baciarono.
- Coraggio amore è quasi finita, domani saremo in albergo sull’Atlante, al fresco delle cime, da soli.
Uscirono e fecero due passi intorno alla casa, Erminia sentiva le anche dolenti e credeva che i legamenti ormai fossero compromessi, sentiva di ancheggiare più del solito, le sembrava di essere più alta, possibile che tre giorni seduta facessero questo effetto?
- Amore mio, non hai visto che di fianco a mio padre c’erano due amici suoi che si sono passati un narghilè per tutta la serata? Non era fumo di tabacco quello che tirava dalla tua parte nella brezza della sera. - Ridendo dolcemente la rassicurò Wadi, - Non è successo niente stai tranquilla, le tue percezioni sono solo un poco diverse dal solito, ma ci sono io con te.
Come era facile sentirsi a posto, al suo fianco, dovunque.


Capitolo II
Il viaggio di nozze

Le passeggiate, in quella specie di Svizzera africana, le facevano sentire il suo corpo sereno e potente.
Dopo l’arsura delle pianure, dopo le colline seccate dall’estate e i loro colori prosciugati dal vento, ecco il verde dei pascoli e dei boschi d’alta quota, l’aria tersa del mattino permetteva di spaziare fino a orizzonti impensabili.
Cosa poteva immaginare di meglio? Provò a chiederselo nei pochi momenti in cui era sola e non ebbe nessuna risposta. Così ebbe paura, paura che tutto finisse, che non si trattasse che di un sogno, ma appena Wadi tornava con il suo respiro breve e affrettato, dall’hammam dell’albergo, avendo fatto le scale di corsa, si sentiva di essere l’aria che lo nutriva, e si lasciava andare, tra le sue braccia forti, come alla corrente di un fiume.
Conversare tra loro era come doppiare un film appassionante, le sembrava di essere diventata più intelligente, più spiritosa, i loro dialoghi erano pregni di significati profondi, eppure con la leggerezza del disincanto incarnato nella saggezza di un amore senza tempo.
Aveva imparato a conoscersi più a fondo di quanto non le fosse mai successo, aveva tanto cercato con Fabio il suo punto G, eppure era lì, dove probabilmente era sempre stato, in attesa della sua mano gentile.
Aveva imparato a titillargli la prostata, per farlo arrivare all’orgasmo quando oramai sembrava non ci fosse più niente da fare, dopo tutta una notte d’amore.
Aveva rasentato il delirio quando lui le si era negato, dopo ore di preliminari, perché era mestruata, l’aveva implorato di prenderle il culo e aveva voluto prenderlo più a fondo che mai, si sarebbe aperta come un’ostrica per lui e aveva avuto un orgasmo anche così. Sconvolgente.
Le due settimane furono tanto infinitamente piene di fuggevoli attimi preziosi da volare, apprezzarono la lunga attesa della cena, quando, inaspettata, era giunta una parte del seguito di un ministro e aveva reclamato la priorità nel servizio, e la fugacità della picchiata di un falco su un piccolo qualcosa in una radura.


Capitolo III
La vita in comune

Le piccole contrarietà del quotidiano si stemperavano nelle reciproche attenzioni, e niente sembrava turbare la loro armonia, si faceva strada in entrambi l’idea che avrebbero potuto avere un figlio.
Erminia aveva già cominciato a prendere l’acido folico, per prevenire la spina bifida, in un eventuale feto che volesse annidarsi nel suo utero sereno.
Ma, una domenica mattina, andarono a un “brunch” con i colleghi di lavoro di Wadi, e lì cadde un seme di scontento.
Davanti alle uova fritte con pancetta, Erminia ebbe uno scompenso, si sentì mancare per un istante, mentre Wadi proseguiva con il suo vassoio fino alle costine d’agnello, lei ebbe la sensazione che il suo stomaco si ribellasse, che volesse trattenerla, chiuse gli occhi un momento e aspirò il profumo della pancetta affumicata.
Non disse nulla e si limitò a un cappuccino liscio, ma fece fatica a fare accettare allo stomaco quel sostituto.
La compagnia era brillante e altre volte lei aveva goduto di quel clima scanzonato che i colleghi di Wadi, ingegneri e geologi di una società di prospezioni petrolifere, instauravano così facilmente, quel giorno restò un poco in disparte.
Tornando a casa lui le chiese se non stesse bene. – Hai qualche novità per me amore? – Le chiese, visto che non aveva mangiato niente. Lei, stranita, non capì, solo alla sua occhiata eloquente al suo ventre interpretò la domanda come lui si aspettava e laconica:- No niente, lo saprei, solo un po’ di imbarazzo, avrò qualche linea di febbre.
Quella sera fu la prima volta da quando vivevano insieme che non fecero l’amore, lei si nascose dietro il suo malessere e la sera, dopo una cena leggera, andò a dormire presto.
Alle tre del mattino si svegliò da un sogno con l’urgenza di fare pipì, mentre, seduta, aspettava l’ultima goccia, le tornò in mente il sogno, era alla gita scolastica di quinta superiore, nella Foresta Nera e la colazione era un tripudio di salumi, ricordava perfettamente quella tavola, il pane di segale caldo con le fettine di prosciutto alla brace, i meraner wurst, il prosciutto affumicato… Si accorse che stava di nuovo sognando, seduta sul water, solo perché la saliva le era caduta sulle ginocchia.

Capitolo IV
L’illuminazione

Qualche giorno dopo, Wadi tornò da una “convention” a Sondrio con un “violino” di capra, era tutto contento e senza aspettare neppure di cambiarsi cominciò ad affettarlo.
Fu l’inizio della fine, forse la somiglianza del violino di capra, ispido di pelo scuro, con il prosciutto di cinghiale, le fece scattare qualcosa, qualcosa di ancestrale, forse aveva ragione quel poeta del Dio Maiale, i sogni di quella notte furono tutte le portate di un cenone di Capodanno, completamente a base di maiale!
Il mattino si alzò prima di Wadi e corse a farsi una doccia, aveva l’impressione che lui potesse sentire l’odore di carne impura di cui per buona parte della notte si era nutrita, ma questa fu una riflessione che ebbe dopo, mentre l’acqua le scorreva addosso, sul momento, appena alzata, aveva solo avuto una sensazione di sporcizia sulla pelle.
Si strofinò a lungo tutto il corpo con la spugna vegetale, la schiena con la striscia di canapa a due mani e, sbattendo i gomiti contro le pareti della doccia, rimpianse la spazzola di setola che usava prima di conoscere Wadi e, di nuovo, si sentì in colpa, le sembrava di tradirlo.
Quando a tavola per la colazione, però, vide il caffelatte e le fette biscottate con burro e marmellata, ebbe un moto di stizza, le tornò in mente il “brunch” e quelle uova fritte, bianche, ma appena rapprese, nel cui tuorlo gli altri immergevano i crostini e la pancetta croccante che piegavano con cura, con forchetta e coltello, prima di portarla alla bocca con gusto evidente. Anche lei aveva partecipato a quel piacere anche solo guardando.
La colazione fu pesante, lei rispondeva a monosillabi e Wadi, stupito, chiedeva cosa non andasse, se aveva dormito, se aveva mal di testa…
Finalmente lui uscì e lei telefonò in ufficio che avrebbe tardato, perché la lavatrice le aveva allagato la casa.
Per distendere un poco la tensione fece un giro di ripasso alla casa, sprimacciò il divano e disfò il letto, cercando in quei gesti di ritrovare il senso della quotidianità, dell’appartenenza alla sua realtà.
Aveva sempre pensato di essere una persona razionale, passionale, ma razionale. Eppure questa storia del Maiale le stava sfuggendo di mano, possibile che al solo nominarlo avesse l’acquolina in bocca?
Insomma bisognava esorcizzarlo si disse, si sarebbe comperata un cacciatore di cavallo e se lo sarebbe mangiato interamente da sola, adesso.
Si vestì in fretta come non mai, il trucco non fu che un’ombra sugli occhi, sfumata con le dita in ascensore.
Alle otto e trenta era davanti alla saracinesca che saliva, alle otto e quarantacinque era a casa ad affettare il salame, con il francesino spalancato, pronto ad accogliere le piccole fette, si accorse che le tremavano le mani e si sedette. Un bicchiere d’acqua? No meglio un chinotto. Ne bevve un intero bicchiere a piccoli sorsi, ma lo sguardo continuava a fuggire al salame sul tagliere, finalmente riuscì a calmare la sua ansia e lo tagliò a fette spesse, aveva piccoli lardelli bianchi sparsi che facevano un forte contrasto con la carne scura.
Aveva scelto il cacciatore di cavallo perché così le sembrava di tradire meno Wadi, cercò di dimenticare che sapeva benissimo che i lardelli bianchi erano di maiale, e invece erano proprio loro, sciogliendosi sulla lingua a darle più piacere. Sì, era un buon salame, ma si sentiva che era di cavallo, la carne un poco dolce, era più secca intorno alla fetta e quasi fresca nel mezzo, era una cosa diversa da quello che aveva sognato. Aveva sbagliato! Per esorcizzare il Dio Maiale avrebbe dovuto prendere un salame di Puro Suino o coppa o prosciutto o culatello.
In pochi minuti era di nuovo in strada, entrò nel supermercato e al bancone della salumeria prese un etto di tutti i salumi di maiale su cui le caddero gli occhi.
Tornò a casa, però, in preda a una agitazione confusa, pensava a Wadi, pensava ai loro progetti di avere in figlio, pensava alle sue sensazioni di quei giorni, pensava ad Allah, per lo meno a come glielo aveva rappresentato Wadi, che, pur non essendo praticante, obbediva ai precetti di astensione dall’alcool e dal maiale, pensava al Dio dei suoi genitori, quello cristiano, cattolico, apostolico, romano e al digiuno quaresimale, ah ecco perché non c’era coda in salumeria, erano tutti alla pescheria, era venerdì di Pasqua!
La cosa la rasserenò, il suo non era uno sgarbo ad Allah, ma, democraticamente, anche al Dio cristiano, Wadi non aveva da prendersela, da quel momento il suo Dio sarebbe stato il Maiale, la prendessero un po’ in saccoccia tutti gli altri. La pervase una sensazione di pace che la accompagnò fino in casa, aprì con calma ogni involto e da ciascuno prese una fettina, ogni fettina con un pezzetto di pane mangiò con gusto, percepì il sacrificio del Maiale e quello del Grano, quello del Lievito e quello del Sale, sentì che tutti loro vivevano in lei.
Andò in ufficio con una serenità, nello sguardo e nel cuore, che le sembrava di non avere mai avuto, aveva riposto con cura i salumi nel frigo e si era fermata al bar a farsi un calice di rosso, alle dieci del mattino il barista l’aveva guardata stupito e aveva aperto una bottiglia di Raboso, lei ne aveva apprezzato il carattere robusto e sanguigno, aspro e dolce e si era avviata al metrò sorridente e leggera.


Capitolo V
I riflessi cangianti della seta

Quella sera tornando dall’ufficio Erminia si era fermata in una enoteca a aveva preso una bottiglia di refosco dal peduncolo rosso, raboso non ne aveva trovato, non aveva ascoltato molto della disquisizione dell’addetto, aveva colto però che quello era il vino che più gli somigliava.
Aprendo la porta, con solo due mandate, aveva capito che Wadi era già rientrato e le era andata incontro allegra. Lui era davanti al frigorifero con in mano un cartoccio di coppa aperto e l’aria schifata. Lei entrando aveva posato la bottiglia sul mobiletto e sorridendo gli aveva preso il cartoccio dicendogli:- Non è per te amore, l’ho preso per me.
In quel momento lui vide la bottiglia di vino e il suo sguardo si fece cupo. La guardò con disprezzo e andò in sala.
Erminia aveva dalla sua la consapevolezza di essere nel giusto, prese una fettina di coppa con due dita e se la calò in bocca dall’alto, aprì la bottiglia di vino e se ne versò un bicchiere. Poi si preparò un panino con il prosciutto di Praga e un velo di senape, e si mise a mangiare con gusto.
Wadi doveva essere perplesso, pensò Erminia, lei, appena aveva colto la sua contrarietà alla vista di maiale e alcolici, li aveva banditi dalla casa e dalla vita, ma ora era tempo di cambiare se voleva, e, se non voleva, bene! Non era certo il caso di farci un figlio! Bisognava affrontare la cosa, subito.
Entrò in sala con un vassoietto con il panino e il bicchiere, sorridendo, e gli disse che nessuno lo avrebbe obbligato a mangiare maiale e a bere vino, ma che nessuno avrebbe impedito a lei di farlo e se avessero avuto un figlio avrebbe mangiato ciò che avesse voluto, senza divieti ideologici o religiosi.
Wadi era sorpreso da questa sua presa di posizione, lei non aveva mai manifestato disagio di sorta per quelle rinunce, tanto che lui aveva pensato fosse qualcosa di naturale; nonostante le prove contrarie, nei ristoranti e a casa d’altri, si era trovato a pensare che, forse, non tutti gli italiani bevevano alcolici e mangiavano maiale, non si era fermato a riflettere più che tanto sulla cosa, aveva accettato la cosa come naturale.
Erminia lo guardava, serena, vedeva nei suoi occhi uno smarrimento che le fece male, ma diede un morso al panino con convinzione, lo vide rabbrividire, poi con un sorso di vino deglutì il bolo gustoso, sentì il tannino leggero sul palato e prese un altro sorso, per sgombrare la bocca e gustare più pienamente, vide in quel momento che lui le leggeva negli occhi il piacere ed era geloso.
Si avvicinò a lui e le prese la mano, se la portò alle labbra e la baciò, se la fece scorrere sul viso e con essa si carezzò, sentì la sua rigidezza e gli si accostò, lui rimase inerte, confuso; lei rimase al suo fianco per un tempo infinito, credeva di sentire i sentimenti di Wadi combattere tra loro, le sue abitudini scontrarsi con la sua logica disincantata e prese l’iniziativa, lo baciò, con le labbra che ancora sapevano di vino. Lui fermò il respiro in un rifiuto, poi si lasciò andare e respirò quei profumi di frutti di bosco, stupito socchiuse le labbra e assaporò quel che di aspro e di tannino era ancora sulle labbra di lei e la baciò.
Non fu facile per loro rispettare e capire quel che fino allora avevano ignorato, seppellito, ma, come la trama e l’ordito della seta, diversi e contrastanti, danno riflessi cangianti e preziosi, così loro, accettandosi per intero, divennero più della somma delle loro parti, più di quel che, pur bello, erano stati.

Milano10 Aprile 2009

giovedì, marzo 26, 2009

Cade la pioggia, ma Agata che fa?

La pioggia dell’Aprile aveva stancato già tutti.
Agata non si attendeva un segno dal cielo, sì sapeva d’essere un’eletta, ma insomma, proprio un fulmine sull’antenna della macchina, un istante prima di pigiare il pulsante del telecomando, quando era a meno di due metri dall’auto! Rimase abbagliata e assordata, si volse e si appoggiò al palo del divieto di sosta, un istante, poi realizzò che era di metallo e si scostò di scatto, un’occhiata all’auto, le cui gomme fumavano, alla macchia scura sul tetto dove c’era stata l’antenne della radio, la convinse ad affrontare di nuovo la traversata della larga piazza sotto la pioggia fitta e fine.
Mentre beveva un capo in bi, in caffè, si rese conto di essere in ghetto. Si era allontanata dall’auto senza pensare a dove andava, così dopo tanto tempo era entrata in ghetto.
Da quando si era iscritta alla Lega non era più entrata in ghetto, chissà perché? In fin dei conti c’erano molti ebrei di destra, ce ne erano stati anche nel Partito Nazionale Fascista, addirittura alcuni erano stati sostenitori di Hitler, all’inizio della sua sciagurata parabola politica. Oltretutto che fosse ebrea per parte di madre, dalla trisnonna lungo la linea femminile (quindi a tutti gli effetti) lo sapeva solo lei, in seguito a quella malnata ricerca araldica, commissionata dal padre alla ricerca di qualche sedicesimo di nobiltà.
Ma allora perché tutto quel disagio, perché non era più riuscita a entrare in ghetto da allora? Appena si avvicinava all’angolo a est di Piazza Unità d’Italia cominciava a sentire di essere osservata, di più, sentiva che anche le pietre del marciapiede parevano farsi più lisce, e gli spigoli più acuti, sarebbe stato un attimo sbrizzar via de pè e romperse la testa su quei spigoi netti.
Poi questo pensare in triestino appena si avvicinava al ghetto, saltava fuori da ricordi ancestrali di cui non aveva contezza. Ecco, il caffè caldo cominciava a renderla più presente a se stessa, ah “aveva contezza” questo sì che era un bell’italiano aulico! Come gli era venuto poi di ordinare un capo in bi? Non sapeva neppure cosa fosse prima di entrare in quel bar, eppure, quando gli avevano presentato il caffè macchiato in bicchiere lo aveva riconosciuto subito.
Si era sempre ritenuta una Vera Padovana, una Veneta Vera! Non una veneziana con i piedi a mollo, adatta a fare la comparsa per Goldoni, non una vicentina campagnola e magnagati! Certo suo padre era del sud, ma si era integrato così bene! Dopo cinquant’anni lo si sarebbe detto proprio un indigeno, e sua madre… Lasciamo perdere… Sarebbe stato tutto così perfetto, se non fosse stato per quella trisnonna: ebrea triestina. Come dire il peggio del peggio.
Un tempo non le era dispiaciuta Trieste, con questa sua aria da zitella dignitosa, e i triestini che se la godevano mica male, sempre fuori di casa, o in caffè o in osmizza, o al mare o in Carso, era un bella città dove passare qualche giornata di vacanza, ma da quando aveva scoperto questa sua ascendenza… Niente! Non c’era verso. Aveva un bel ripetersi che sarebbe potuta andare peggio: avrebbe potuto scoprire un’antenata zingara! Ma il sollievo durava solo un attimo, era così inconcepibile…
Così queste riunioni degli eletti nelle liste della Lega nel Nord Est, che si tenevano a rotazione tra i capoluoghi, quando toccava a Trieste stavano diventando un tormento.
Il barista stava aprendo il prosciutto, cotto in crosta di pane, che gli avevano appena portato caldo, caldo e il profumo saliva nell’aria densa di umidità, ma lei si accorse con sgomento di avere ribrezzo di quella carne impura e si fece indietro, mentre le sue ghiandole salivari le inondavano la bocca.
Arrivavano intanto i clienti abituali che sapevano che era l’ora del prosciutto e venivano a bagnarsi il becco con un birin, mangiando un rotolin de prosciuto sul grisin, mentre altri accompagnavano l’ottavin de malvasia o de terrano con un piattin de prosciutto col kren. Sembrava una parodia, erano tutto piccine le cose che chiedevano… Frastornata dalle sue sensazioni Agata, uscendo, andò a sbattere con un uomo che entrava e le cadde la cartella con gli appunti per la relazione che avrebbe dovuto fare sull’incontro. Tutti i fogli si sparsero sul pavimento bagnato e tra le scarpe degli avventori. L’uomo le sorrise e per salvare la situazione disse: “Stè fermi tuti, che se stè fermi ofro il bis a tuti” poi si chinò in fretta ad aiutarla, infilandosi tra le gambe dei clienti a raccogliere i suoi fogli, mentre lei era rimasta, schifata, a guardare i suoi appunti mescolarsi alla segatura bagnata. Con un sorriso le si avvicinò, dicendole: “Mettiamoli ad asciugare sul termosifone e mi permetta di offrirle qualcosa intanto che aspettiamo, tanto per farmi perdonare”.
Ah ecco cosa presagiva quel fulmine!
In testa le frullava una canzone della Nannini, Agata era diventata sorda, sorrideva a quell’uomo come un’imbecille, il chiasso degli avventori era lontanissimo e questa specie di Lancillotto dagli occhi verdi e dal capello biondo, la guardava scompigliandole le sinapsi, lo vedeva muovere la bocca, ma non sentiva niente, lo seguì al tavolo e, mentre lui le scostava la sedia, ricollegò i sensi e il rumore del caffè tornò, fastidioso, mentre lei cercava di sentire le sue parole di presentazione.
Wlado Kubernakis mediatore culturale del comune di Trieste per la comunità rom. Era un rom di origini greco-ungheresi, i suoi facevano i giostrai in giro per l’Europa.
Il cerchio era completo, prima di sapere del suo sedicesimo di sangue ebraico lo avrebbe salutato con cortese fermezza e infastidita se ne sarebbe andata, dimenticandolo, ora sentiva, sapeva, che sarebbe stato tutto diverso.

Milano 26 Marzo 2009

giovedì, marzo 19, 2009

Due passi nel bosco

Imbibita di pioggia la terra geme
Si lamenta l’erba cipollina
Il muschio cede l’acqua che trattiene
Poi la riprende come respirando
Il cuoio delle foglie morte tace
Si fa poltiglia sotto il piede
Son molli i ricci di castagno
Neppure i rami morti crocchiano più
Cedendo sotto il piede mugolano piano
Eppure
Tra i lamenti cresce ribelle la peonia
Affaccia il capolino anche il muscari
Io cerco il luogo dove sepolto stavi
Mentre io ti aspettavo
Mentre ti cercavo
Là dove la lupara bianca ti lasciò
Là dove avrebbero voluto tu restassi
Non è nel cimitero che ti trovo
Ma qui dove ti lasciarono morente
Coperto dalle foglie e qualche ramo.

Milano 19 Marzo 2009

sabato, febbraio 28, 2009

Tu limpida fonte ed io Narciso

Nessuno di me cantò le gesta,
sorrisi donati in gelidi mattini,
nessuno di me cantò le membra,
esercitate in tiepidi grattini,
solo, di me , massime si disse:
cemento sei, granito!
Non pallido alabastro,
né pur ebano nerastro.
Ancora avevo riccioli scuri,
ma mistero magnifico non fui,
né ombroso,
né imperial nuca la mia.
Ma sempre io fui
a consumar le ombre
onde cantar le membra altrui,
i riccioli, la nuca,
le pieghe e i dolci afrori.
Così son, ora, a celebrare te,
dolce amore in cui mi specchio,
limpida fonte di fronte a me,
Narciso.

Milano 28 Febbraio 2009

mercoledì, febbraio 11, 2009

Se potessi pensare, se potessi scrivere

Il sapore dolciastro della morte
è quello del glucosio nella flebo,
sento il tuo dolore più del mio,
sento l'amaro gusto della salvia,
sento il piccante della menta,
quando mi lavi i denti e piangi,
quanto vorrei liberarmi,
quanto vorrei liberarti,
Liberami da queste catene,
liberami da questo letto,
liberami da queste carezze,
liberami da queste preghiere,
di chi vuole salvarmi,
di chi vuole salvarsi.
Ostaggio, mi tengono in vita,
sono l'ara su cui sacrificano,
la pietà per i vivi uccidono in me.

Milano 7 Febbraio 2009

lunedì, febbraio 09, 2009

Ho dormito

Ho dormito in una stazione,
in Italia, in Austria, in Turchia,
aspettavo un treno,
ho conosciuto gente buona,
gente furba, gente indifferente,
ho dormito in una stazione,
avrei potuto esserci io,
ferito e bruciato,
in quel ospedale,
nel reparto passatempi.


Milano 9 Febbraio 2009

giovedì, gennaio 29, 2009

...

Se la neve la preserva…


Scende la neve,
candida e lieve,
copre, silente,
parchi e giardini,
mancando i bimbi,
assenti i nonni,
restano i cani,
coi lor padroni,
copre, la neve
le loro fatte,
e le preserva
dalla disfatta,
saranno pronte,
con il disgelo,
fresche e odorose,
appariranno,
tra l’erba verde,
come deposte,
appena fatte.


resta fresca anche la merda.

Milano 22 Gennaio 2009

A Stefania che commentò "Le anatre e il Tao"

Stefania, questo tuo commento vale per me
quanto una nomina a senatore a vita,
ti fò una riverenza ed arrossisco,
sfioro le tue scarpe col cimiero,
davvero non ne sono degno,
non fu che un caso, sul fiume,
vedere in quegli uccelli,
queruli, il tao,
no, non fui io,
fu il tao,
fu.

Pampax

Vorrei essere piattola della tua pampa.
Avvinto alla radice del pelo.
Avvolto dagli umori,
stordito dagli odori,
sordo a tutti i rumori,
fuorché allo strofinio
del raso del sottogonna
sulle tue natiche forti.

Milano 8 Gennaio 2009

Nelle tue piccole labbra

Vorrei perdermi là dove gli umori secerni,
nascosto nella tua umida forra,
aspetterei i momenti eterni, istanti preziosi,
della tua sorgente intermittente,
mi cullerei, adagiato nelle tue pliche, al tuo passo,
sordo ai rumori del progresso,
solo la notte uscirei,
per udire gli usignoli intonare i loro canti alla Luna.

Pietra Ligure 2 Gennaio 2009

Le anatre e il Tao

Fendono la corrente innanzi a me le anatre,
eppure stanno ferme,
al loro petto si aprono le onde,
la flotta dei piroscafi leggeri tace
ed io con loro,
rifletto sul taoismo, sulla vita.

Pietra Ligure 2 Gennaio 2009

La valle della Luna

L'Uomo strappò la mia veste di bosco,
il Fuoco arse la mia camicia d'erba,
e, il Sole, la mia carne terrosa,
la Pioggia ne strappò ampi brandelli,
la Luna dà refrigerio alle mie ossa,
così impudica, esposta, nuda,
io ti appaio solo roccia nel Vento
che sotto il suo soffio inquietante geme.

Milano 18 Gennaio 2009

La stagione delle piogge

Infine un tetto,
tra le radici di un pandano.
Sono il più grande,
cinque anni,
mi diceva mia madre,
tanto tempo fa,
quando era con noi
Così sono il padre,
no, non davvero,
solo fino a quando non torna,
sono il maggiore,
gli altri sono bambini
e devono ubbidire,
siamo riusciti a mangiare,
quasi sempre qualcosa,
ora però piovono bombe,
e io non so che fare.
Seduti sui calcagni, nel fango,
mia sorella e mio fratello stanno,
giocano, come facevo anch'io,
con una formica soldato e un rametto,
bisogna passarselo da una mano all'altra,
senza che ti morda, senza fine,
così facciamo anche noi,
avanti e indietro, tra i due fronti,
ora ho paura, più di prima,
sono cresciuto e non voglio,
non voglio andare con le Tigri,
non voglio combattere per loro,
non voglio lasciare i miei fratelli,
non voglio che l'esercito mi uccida,
penseranno che sia una Tigre,
anche se non lo sono…
Intanto qui non c'è niente da mangiare,
avessi almeno ancora il mio coltello,
potrei scavare le grosse larve bianche,
quei bruchi grassi e dolci,
nel legno marcescente,
ma l'ho perduto ieri nella frana,
ci siamo salvati a stento,
ha fatto cadere, il temporale,
il muretto di terra e di letame,
al quale stava appoggiata la lamiera,
chissà che non sia stato Shiva, il distruttore.
Chissà se i bombardieri hanno sulle ali,
o sulla pancia, l'immagine del Budda,
che medita, ieratico, l'ascesi.
Ah, se avessi almeno il mio coltello!

Milano 15 Gennaio 200

L'appuntamento

Incontro la mia bella lungo il fiume,
ha intorno un'aria tremula e un po' scura
e chi, senza badarle un po' la sfiora
poi si ritrae, e trema di paura ,
un poco anch'io, ma poi con me l'invito,
andiamo sottobraccio fino al ponte,
la, dove pasturano le oche
ed io ripasso un poco la mia vita
infine lei mi ricorda ch'è finita
e strettomi con forza mi conduce
in quella forra dove non c'è luce
e, lasciva, attenta, mi sorride,
finchè io cedo e con la morte gioco
andando insieme verso il cimitero.

Pietra Ligure 2 Gennaio 2009

In una giornata di nebbia

Un rivolo di nebbia, dalla finestra socchiusa,
scende, così, nella vasca, un rivolo di sangue,
sento di diventare più leggero.

L’acqua si è fatta quasi fredda,
mi scuote un brivido le membra,
lo stomaco mi sembra più pesante.

Mi duole un po’ la testa e non la muovo,
dovrà sembrare un suicidio, sono certo,
avranno cercato il narcotico con cura.

Se penso che l’assicurazione era fasulla…
Era una fotocopia taroccata bene,
lei e il suo ganzo l’hanno creduta vera.

Ora, lo sento, sto per scivolare, sotto,
speravo di non finire anche affogato,
sono davvero così brutti, nelle foto.

Suicidato per aver voluto fare il furbo,
ma ancora peggio, se fossi stato onesto,
oltre che morto sarei stato beffato.

In fin dei conti non prenderanno un soldo,
questo dovrebbe consolarmi, mi ripeto,
vorrei tremare di freddo, ma non posso.

L’acqua è diventata quasi un rosso intenso,
lo stomaco contratto mi fa male,
si piegano le ginocchia sotbho ‘l spebhob

Il muro e la memoria

mattone su mattone su mattone
ne su mattone su mattone su ma
costruisco un muro
per tenerti fuori
per chiudermi dentro
tu sarai prigioniero
io sarò prigioniero
io sarò libero di non vederti
tu di non vedere me
sarà un bicchiere mezzo vuoto
sarà un bicchiere mezzo pieno
io sarò protetto dal tuo odio
non dalla mia paura
tu sarai protetto dalla mia mano
io dalla tua
due facce della stessa moneta
non c'incontreremo mai
fino a che la curiosità
non vincerà memoria

Milano 28 Gennaio 2009

Dalle colline corse

Io qui, sulla collina del vecchio cimitero,
guardo i falchi volare, indaffarati,
dalla torre pisana, ai campi lungo il fiume;
sento le strida dei piccoli affamati,
non quelle dei topi, morti e lacerati.

Seduto nella macchia spogliata,
che circonda il vecchio cimitero,
aspiro l’odore del mare, il suo respiro;
fermo, sento i conigli, guardinghi,
uscire allo scoperto. Giunge il tramonto.

Tra poco comincerà, l’assiolo,
a scandire la notte col suo verso,
hanno già dato, intanto, il cambio,
alle ultime rondini, nel cielo,
pipistrelli scuri e silenziosi.

Io, qui, sulla collina, che si fa scogliera,
sento le procellarie piangere la gente,
abbandonata dai gommoni in mare aperto.
Il mare mormora, e sembra indifferente,
ma forse sono io che non capisco, niente.


Milano 26 Gennaio 2009

Dal Medio Oriente

Se dovessero, arabi e israeliani,
pagare per il dolore che ci danno,
a tutti noi nel mondo che li guardiamo,
a tutti noi che li ascoltiamo e non capiamo,
per le nostre speranze, deluse, nel progresso,
per le magnifiche sorti e progressive, morte,
per i nuovi anni, sempre rinnovati e sempre uguali,
per le foto di bimbi martoriati cui ci hanno costretto,
e poi le donne, i vecchi e i giovinetti, invalidi e amputati,
ben più di mille dovrebbero morirne al mese, forse duemila,
a mesi alterni, beninteso, ora di questi e ora di quelli,
ché in Africa è così, ci dan dolore anch’essi e forte,
ma pagano, la nostra sofferenza, ben più di tanto.
Allora vale la pena di soffrire noi,
sapendo loro quanto costa!
Invece lì, nel Medio Oriente,
per quanto ci fanno stare male,
dovrebbero oramai essere scomparsi,
eh, quanti popoli lo fecero in silenzio.
No, loro no, ancora stanno a urlare,
ma oramai ci abbiamo fatto il callo,
aspettiamo, a commuoverci la fine.
Aspettiamo che, dei due popoli,
almeno uno scompaia.
Poi lo commemoreremo.
Certo che, con l’insistenza
con la quale vanno avanti,
che non vogliono parlarsi,
che vogliono gettarsi, l’un l’altro, a mare,
viene da dirsi: sarebbe più leggero,
il mondo forse, dopo di loro,
senza questo carico di odio,
senza questo o quello, qualunque Dio.

Milano 13 Gennaio 2009

Capire la poesia

Capire la poesia

Cotto di vino aspro, cotto di miele
cotto con spezie diverse,
dalle tue mani ripreso dal vaso,
posto incongruamente nel piatto,
e decorato di salsa di mirtilli e cioccolato,
eccomi pronto,
verserò lacrime di sangue,
lacrime di me,
distillo versi malati,
rime baciate, alterne,
dodecasillabi o esametri,
senza misura o pena,
se mi capisci, bene,
fingi, altrimenti,
qualche parola arriverà al tuo cuore,
altre alla mente,
intendo ridere di me sopra ogni cosa,
fammi ridere con te,
morte, mia sposa.
Descriverti saprò senza vederti,
dammi la mano e andiamo,
altri ci sono che spingono da presso,
e senza posa.


Se mi capisci, bene,
fingi, altrimenti,
qualche parola arriverà al tuo cuore,
altre alla mente,
non serve il costrutto della frase,
solo l'intento.

non serve.


Milano 26 Gennaio 2009

Al critico Narri

Le sono debitore di un consiglio, caro Narri,
ma scrivo per gusto ed emozione,
per divertimento e rimozione,
mosca cocchiera sto sul bue, dinanzi ai carri,
cerco, anche nel riso, compenso
al mio dolore, così non penso,
e poetando sussurro, o canto, stonato.

Doglianze di poeta

Leggo delle morti quotidiane di chi davver lavora,
e me ne dolgo, una tenia mi sento, un parassita,
io, solo, mi compiaccio che il massimo rischio di un poeta,
qui, non sia che la tenzone che, in versi sciolti, o in rima,
si compone di sensi e di dissensi,
si articola in nonsensi,
si scioglie in controsensi.
Chi si prende sul serio,
intimo della musa,
e chi davvero scherza,
senza tenere il muso,
e chi, preso di sé, s'adonta.

Accablé

Accablé de souvenirs,
même du devenir,
par les fantômes, inconnus,
de ma prochaine vie,
je reste la bas, silencieux,
cependant si bien présent,
a moi même, comme une chêne,
à la fête du gui parmi les Celtes.