martedì, aprile 28, 2009

Sui colli della Val d'Aso 1955

Il paese non aveva che una sola strada che, a spirale, saliva dalla Porta alla spianata intorno alla Torre.

La Torre dell’orologio non è mai stata un campanile, fu costruita nel 1831, al centro dell’antica rocca, di cui altro non resta che le fondamenta delle mura, inglobate nelle case intorno alla spianata di sassi incuneati con cura.

Era, la spianata, come un’enorme aia leggermente convessa su cui si aprivano le porte delle case che dominavano il paese e, tra queste, la bottega del falegname e quella del fornaio erano alle estremità del lato esposto a sud.

C’era in quella disposizione un’antica saggezza, l’uno aveva il forno sempre acceso e il suo fumo salendo dalla cima del colle non avrebbe disturbato nessuno, l’altro, pur stando a distanza dal fuoco del fornaio, avrebbe disturbato meno, rumoreggiando nella sua bottega, lì sulla cima, ché, come si sa, anche il suono “a cono sal nell’àere”, inoltre erano, quelle di quel lato del piazzale, le uniche facciate ariose e soleggiate del paese, essendo le altre sulla stretta e ripida via che lì menava dalla Porta.

Altre botteghe aprivano le loro porte sulla via, nell’ombra, c’era il barbiere, in un locale a smalto color burro, e, quasi in fronte a lui, c’era la “privativa” dei tabacchi e dei bolli, di pochi giochi e dei quaderni, con al suo fianco l’osteria, il padrone era lo stesso e passava, da un ruolo all’altro, da una stretta apertura nel muro che le divideva, attraverso una cortina di catene d’alluminio, insieme all’odore del vino rovesciato e stantio che sempre intorno gli aleggiava.

Un poco più avanti, dove una strada usciva dall’abitato verso una chiesa e quindi al cimitero, c’era il macellaio e intorno l’odore di sangue che sempre ristagnava. Era, la chiesa, molto più nuova del resto del paese, aveva cinquanta o cento anni, mentre la struttura del paese, la più antica, quella delle case a strapiombo con le mura sulle pendici aspre del colle aveva fondamenta tra i mille e i cinquecento anni addietro.

La costa dell’ascolano ebbe gli ultimi suoi pirati a saccheggiarla nel 1815, ma, fino ad allora, dai Liburni, che contesero ai Romani l’Adriatico, ai Narentani, che combatterono i Veneziani per circa cinque secoli, ai Barbareschi e agli Uscocchi, non vi fu generazione, su queste coste, che non conobbe qualche razzia.

Così, dall’esterno, il paese sembrava una Torre di Babele: dalle rocce scabre salivano semi-pilastri di pietra e di mattoni che, disuguali, si univano in arditi archi, nelle rientranze, a fare da base a un piano superiore di muri-pilastri irregolari, tra cui, ogni tanto, qualcuna aveva come un terrazzino a cui scendeva dall’alto una scaletta e una colombaia o un alveare stavano a sfruttare lo stretto spazio tra la roccia e il vuoto, più sopra un altro piano correva, disuguale, di pilastri di pietra e di mattoni ancora, ad alti archi congiunti, e qui i pollai avevano più aggio, forse due metri, a loro stava sopra un piano quasi continuo, ma di diversa altezza, di archi e pilastri di mattoni, le volte più basse si aprivano su loggiati scuri e più profondi, a volte chiusi da un muro con una piccola finestra, erano, in fine, le cantine delle case, che gli crescevan sopra con altri quattro piani, o cinque, di finestre strette, sulla valle, ma con solo due, o tre, fuori di terra, sulla via.

Di là dalla strada, verso monte, un’altra fila di case aveva tre o quattro piani, quanto bastava perché l’ultimo piano vedesse l’orizzonte, sopra la cinta più esterna, ma non erano, queste, grandi case, ad onta dell’altezza, non avevano che una stanza per lato, a fianco della scala e, dietro, il monte.

Sopra di esse, fondendosi con i loro tetti saliva, come una cupola, la roccia liscia su cui ergeva le sue antiche mura la Rocca e dal suo centro la Torre, fino al mare, gettava sguardi inquieti.

In quel paese scabro, di pietre e di mattoni, pochi, di coppi non rossi ma grigi, o gialli di licheni, nella sua strada che dalla chiesa menava fino a casa, versai il mio sangue dalla gota imberbe. Giocando a marito e moglie, con la mia prima fidanzata “seria”, avevo trovato una lametta da rasoio vicino a un tombino e, specchiandomi nel secchio accanto alla fontana, beato mi radevo serio serio, finché si tinse del mio sangue il secchio, quattro anni mi sembrarono pochi per morire così, solo per gioco, corsi ricordo fino a casa, ma non era niente, la nonna mi sapeva coccolare, mi fece lo zabaione con il pane!

Era un paese che si sapeva divertire: lungo la strada, ripida, in discesa, una volta all’anno c’era la gara dei “carrozzi”, trappole con ruote di fortuna, che i ragazzi costruivano per la corsa e quasi sempre finivano distrutte.

Ma quel paese aveva per me un “bonus” sopra ogni cosa, il falegname era mio zio e in quella sua bottega ho conosciuto il legno e la sua vena, come la pialla l’accarezza, oppure lo scheggia, e che non dura il chiodo oltre un momento, che per un falegname la vite è un’offesa al legno, altro non serve che la colla e un buon incastro.

Conobbi, dalla sua cantina, scendendo ancora, l’ebbrezza di una vertigine impossibile, avendo una ringhiera malferma sopra il vuoto, conobbi l’Orsa Minore, conobbi che nulla esiste di assoluto.

Ebbi conoscenze tramandate di generazione in generazione di bambini, su come fare esplosivi con zucchero, zolfo, carbone e pillole per il mal di gola.

Resta per me, quel borgo, un luogo della conoscenza che sono orgoglioso d’avere tanto amato.

Milano 27 Aprile 2009

lunedì, aprile 20, 2009

“48” O’ Sismologo

L’istituto di sismologia era chiuso e in tutta la città universitaria l’unica luce accesa era quella dello studiolo al terzo piano, dove il computer ronzava e ogni tanto tossicchiava.
Arnaldo Tomato si era appisolato, aveva aperto il cassetto basso di sinistra, per appoggiarci le gambe, quello alto a destra, per la testa e si era fatto una specie di amaca con la poltroncina del tecnico mentre il computer faceva le veci delle cicale, non fosse stato per il solito sogno, con quello stronzo del suo professore di educazione artistica che commentava i suoi disegni chiamandolo arnaldo pomodoro e gli diceva di spremersi di più, che quello non era un succo degno di Arnarldo Pomodoro, ma di Arnaldo Broccolo…
Ma infine verso le 3.30 il computer tacque e dopo un istante, come una madre all’improvviso silenzio, si svegliò Arnaldo e subito mosse il mouse per riattivare lo schermo.
Il mouse si era intorpidito, o era la sua mano? Comunque riuscì a scorrere il foglio di calcolo fino alla fine e lì in grassetto appariva la previsione, accurata al 67%, nel giro di 300 ore, in base alle misurazioni che aveva effettuato nella zona dei Campi Flegrei e alle solfatare di Pozzuoli, si sarebbe verificato un terremoto di magnitudo tra 5,5 e 7,1 che avrebbe potuto anche causare dislocamenti tettonici tali da innescare anche una successiva eruzione del Vesuvio. In realtà l’eruzione avrebbe anche potuto riguardare l’area dei Campi Flegrei direttamente, ma per sapere quale dei due vulcani si sarebbe più probabilmente svegliato ci sarebbe stato bisogno di una campagna di rilevazioni più estesa.
L’adrenalina scorreva veloce, gli sembrava quasi di sentire le contrazioni delle ghiandole surrenali, ma probabilmente era solo il sonno sull’”amaca”. Doveva subito avvertire la Protezione Civile, e il Prefetto, non c’era tempo da perdere.
Ma, già c’era stato il caso di quel sismologo che aveva preannunciato un terremoto in Abruzzo ed era stato denunciato per procurato allarme…
Inoltre aveva usato le sonde dell’istituto al di fuori dei suoi compiti istituzionali, senza il placet del Professore…
Lui doveva stare attento a come si muoveva era un piuccheprecario, era quasi un abusivo, il Prof ogni tanto gli faceva fare delle perizie che poi firmava e gli passava la metà dell’onorario, che poi era un bel regalo gli diceva, visto che lui aveva tutti soldi esentasse in nero e le tasse, anche per la sua parte, le pagava il Prof.
Non se ne veniva fuori, altro che cattedra e finalmente mettere su casa con la sua “zucchina” qui c’era da perdere anche quel poco.
Ma quanta gente viveva sulle falde del Vesuvio, su quei palazzi costruiti su quegli intrecci di pilastri, come nidi su cespugli, quanta si sarebbe riversata sulla disastrata viabilità, quanti ancora vivevano abusivi nelle case con il decreto di inagibilità ormai illeggibile sulla porta, nei vicoli con le travi che tenevano su una casa appoggiandosi a quella di fronte e via, come un infinito porticato o un castello di carte?
Quante case erano state rialzate a ogni condono di un altro piano? E lui, era meglio lui, che saputo dal cugino del condono “arrivando”, aveva fatto due locali sul terrazzo di zia Cettina, promettendole che non l’avrebbe lasciata morire di cancro, ma che le avrebbe comprato quattro dosi e l’avrebbe aiutata a iniettarsela e poi non ne aveva avuto il coraggio, e l’aveva vista spegnersi, mentre tormentata dal dolore si mordeva a sangue le guance per non urlare e lo guardava ormai non più implorante, solo dispiaciuta.
Sapeva quello che zia Cettina non gli aveva mai detto, sapeva quello che lei pensava: suo cugino, il figlio di zia Cettina, era stato un “omo” lui era solo un ragazzo e lo sarebbe sempre stato; suo cugino, quando il padre era stato ferito in un conflitto tra contrabbandieri, a soli sedici anni era andato in ospedale e aveva ammazzato il feritore e adesso era a Poggioreale con un rene in meno a causa di una rissa e altri quindici anni per lo stesso motivo, ne aveva ammazzato uno e quasi sgozzato un altro.
No non aveva la stoffa dell’eroe, così aveva solo sprecato gli ultimi 25 fine settimana, aveva litigato con Fabiana tante di quelle volte…
Lo scoramento gli fece un groppo in gola, ingoiò lacrime di frustrazione e catarro che non sapeva di avere.
Tutti i sacrifici dei suoi genitori, sua sorella che si era sposata quell’imbecille di Ottaviano per andarsene di casa perché era gelosa di tutte le speranze di riscatto che i loro genitori riversavano su di lui, tutto inutile.
Non poteva fare niente per i suoi concittadini, non è che meritassero molto, è vero, ogni volta che andava a gettare la spazzatura e vedeva tutto buttato alla “sanfasò”: carta, vetri, lattine, teste di pesce; gli veniva una rabbia…
Ma il suo fallimento, essere così vicino…
No, non poteva continuare a macerarsi così, doveva fare qualcosa di costruttivo!
Subito, prima che arrivassero i colleghi!
Aprì il suo c/c e il deposito amministrato e con la leva finanziaria mise ordini per “future” su azioni di tre società che producevano cemento, poi cancellò il programma e se ne andò a dormire.

Milano 7 Aprile 2009

Erminia e le tentazioni della carne (Racconto in cinque capitoli)

Capitolo I
Il secondo matrimonio

La festa non era appena cominciata, durava da tre giorni, ma, in fine, quella sarebbe stata l’ultima sera, non ce la faceva più. Oramai si vedeva che, tranne gli ultimi arrivati, erano tutti stanchi.
Così ebbe un momento di pausa e poté guardarsi in giro senza continuare ad annuire e rispondere, farfugliando, nel suo improbabile francese, a domande e apprezzamenti che non capiva.
La mensa faceva quasi il giro del cortile, si interrompeva solo accanto alla piccola fontana che irrigava l’orto della menta, quattro metri quadrati proprio davanti all’ingresso della casa, come un baluardo profumato agli odori della città. La fontana buttava poco, ma l’avevano disposta in modo che l’acqua facesse un rumore di ruscello, nelle cadute tra le due vaschette alte per le abluzioni del viso di uomini e donne e prima di raccogliersi nella vaschetta bassa, per i piedi, per poi disperdersi tra le alte piante di menta.
La casa era una tipica casa da clima caldo, chiusa all’esterno, come un convento, si apriva verso la sua corte interna su due piani, con un porticato per piano, su tutti e quattro i lati, ma era sovrastata da un terrazzo solo sul corpo principale, quello di fronte all’ingresso, dove abitavano i genitori di Wadi, qui da tre giorni, con le anche doloranti, Erminia era seduta a presenziare a questa sua festa di matrimonio.
Quando aveva acconsentito a fare due matrimoni, con due feste, una dai suoi a Zocca, sull’Appennino modenese e una ad Agadir, sulla costa atlantica del Marocco, dai genitori di Wadi, aveva immaginato che sarebbe stato faticoso, ma tre giorni accosciata la stavano mettendo a dura prova.
Stanotte sarebbe finita, l’indomani sarebbero partiti tutti gli invitati, probabilmente i saluti si sarebbero effettuati in piedi, avrebbe voluto chiederlo a Wadi, ma un dubbio, un piccolo dubbio di avere torto, le consigliava di restare nell’incertezza, alimentando così la speranza.
Wadi bello e dolce come il sole d’estate tra i rami di un fico, si volgeva a tutti con attenzione, sorridendo con il cuore a parenti che quasi non conosceva, aprendo la chiostra dei suoi denti, perfetti e splendenti alla luce delle lampade a gas, distribuite lungo la mensa apparecchiata sul lastricato del cortile coperto di tappeti.
Con Wadi non aveva potuto che scambiare poche parole da quando erano arrivati, la macchina della festa era già partita e gli sposi era d’uso che non si ritirassero da soli neppure per dormire, in quei tre giorni.
Averlo così vicino, eppure così lontano da una vera intimità era un supplizio.
Chissà? A casa, in Italia, non passava giorno che non facessero l’amore almeno ogni sera, appena si vedevano, poi spesso più tardi, qui da tre giorni non era stato possibile, si immaginò che avesse i testicoli gonfi e si accorse che solo pensandoci si era bagnata. Quale alchimia di sensi si scatenava tra loro? Chissà che potenza di energia orgonica si sarebbe potuto ricavare dai loro amplessi, si ritrovò a sorridere tra sé e accorgendosene cominciò a ridere, si ricordò che Wadi gli aveva raccomandato un contegno riservato, ma cominciò a tremargli la pancia per lo sforzo di soffocare il riso. Wadi colse il suo sguardo d’aiuto e le andò vicino aiutandola ad alzarsi, poi l’accompagnò in un bagno del piano superiore ed entrò con lei.
Finalmente soli, furono a lungo sciolti nelle braccia l’uno dell’altra, sordi e muti.
Un bussare leggero e una voce di bambino li riportarono al qui e ora, solo allora si baciarono.
- Coraggio amore è quasi finita, domani saremo in albergo sull’Atlante, al fresco delle cime, da soli.
Uscirono e fecero due passi intorno alla casa, Erminia sentiva le anche dolenti e credeva che i legamenti ormai fossero compromessi, sentiva di ancheggiare più del solito, le sembrava di essere più alta, possibile che tre giorni seduta facessero questo effetto?
- Amore mio, non hai visto che di fianco a mio padre c’erano due amici suoi che si sono passati un narghilè per tutta la serata? Non era fumo di tabacco quello che tirava dalla tua parte nella brezza della sera. - Ridendo dolcemente la rassicurò Wadi, - Non è successo niente stai tranquilla, le tue percezioni sono solo un poco diverse dal solito, ma ci sono io con te.
Come era facile sentirsi a posto, al suo fianco, dovunque.


Capitolo II
Il viaggio di nozze

Le passeggiate, in quella specie di Svizzera africana, le facevano sentire il suo corpo sereno e potente.
Dopo l’arsura delle pianure, dopo le colline seccate dall’estate e i loro colori prosciugati dal vento, ecco il verde dei pascoli e dei boschi d’alta quota, l’aria tersa del mattino permetteva di spaziare fino a orizzonti impensabili.
Cosa poteva immaginare di meglio? Provò a chiederselo nei pochi momenti in cui era sola e non ebbe nessuna risposta. Così ebbe paura, paura che tutto finisse, che non si trattasse che di un sogno, ma appena Wadi tornava con il suo respiro breve e affrettato, dall’hammam dell’albergo, avendo fatto le scale di corsa, si sentiva di essere l’aria che lo nutriva, e si lasciava andare, tra le sue braccia forti, come alla corrente di un fiume.
Conversare tra loro era come doppiare un film appassionante, le sembrava di essere diventata più intelligente, più spiritosa, i loro dialoghi erano pregni di significati profondi, eppure con la leggerezza del disincanto incarnato nella saggezza di un amore senza tempo.
Aveva imparato a conoscersi più a fondo di quanto non le fosse mai successo, aveva tanto cercato con Fabio il suo punto G, eppure era lì, dove probabilmente era sempre stato, in attesa della sua mano gentile.
Aveva imparato a titillargli la prostata, per farlo arrivare all’orgasmo quando oramai sembrava non ci fosse più niente da fare, dopo tutta una notte d’amore.
Aveva rasentato il delirio quando lui le si era negato, dopo ore di preliminari, perché era mestruata, l’aveva implorato di prenderle il culo e aveva voluto prenderlo più a fondo che mai, si sarebbe aperta come un’ostrica per lui e aveva avuto un orgasmo anche così. Sconvolgente.
Le due settimane furono tanto infinitamente piene di fuggevoli attimi preziosi da volare, apprezzarono la lunga attesa della cena, quando, inaspettata, era giunta una parte del seguito di un ministro e aveva reclamato la priorità nel servizio, e la fugacità della picchiata di un falco su un piccolo qualcosa in una radura.


Capitolo III
La vita in comune

Le piccole contrarietà del quotidiano si stemperavano nelle reciproche attenzioni, e niente sembrava turbare la loro armonia, si faceva strada in entrambi l’idea che avrebbero potuto avere un figlio.
Erminia aveva già cominciato a prendere l’acido folico, per prevenire la spina bifida, in un eventuale feto che volesse annidarsi nel suo utero sereno.
Ma, una domenica mattina, andarono a un “brunch” con i colleghi di lavoro di Wadi, e lì cadde un seme di scontento.
Davanti alle uova fritte con pancetta, Erminia ebbe uno scompenso, si sentì mancare per un istante, mentre Wadi proseguiva con il suo vassoio fino alle costine d’agnello, lei ebbe la sensazione che il suo stomaco si ribellasse, che volesse trattenerla, chiuse gli occhi un momento e aspirò il profumo della pancetta affumicata.
Non disse nulla e si limitò a un cappuccino liscio, ma fece fatica a fare accettare allo stomaco quel sostituto.
La compagnia era brillante e altre volte lei aveva goduto di quel clima scanzonato che i colleghi di Wadi, ingegneri e geologi di una società di prospezioni petrolifere, instauravano così facilmente, quel giorno restò un poco in disparte.
Tornando a casa lui le chiese se non stesse bene. – Hai qualche novità per me amore? – Le chiese, visto che non aveva mangiato niente. Lei, stranita, non capì, solo alla sua occhiata eloquente al suo ventre interpretò la domanda come lui si aspettava e laconica:- No niente, lo saprei, solo un po’ di imbarazzo, avrò qualche linea di febbre.
Quella sera fu la prima volta da quando vivevano insieme che non fecero l’amore, lei si nascose dietro il suo malessere e la sera, dopo una cena leggera, andò a dormire presto.
Alle tre del mattino si svegliò da un sogno con l’urgenza di fare pipì, mentre, seduta, aspettava l’ultima goccia, le tornò in mente il sogno, era alla gita scolastica di quinta superiore, nella Foresta Nera e la colazione era un tripudio di salumi, ricordava perfettamente quella tavola, il pane di segale caldo con le fettine di prosciutto alla brace, i meraner wurst, il prosciutto affumicato… Si accorse che stava di nuovo sognando, seduta sul water, solo perché la saliva le era caduta sulle ginocchia.

Capitolo IV
L’illuminazione

Qualche giorno dopo, Wadi tornò da una “convention” a Sondrio con un “violino” di capra, era tutto contento e senza aspettare neppure di cambiarsi cominciò ad affettarlo.
Fu l’inizio della fine, forse la somiglianza del violino di capra, ispido di pelo scuro, con il prosciutto di cinghiale, le fece scattare qualcosa, qualcosa di ancestrale, forse aveva ragione quel poeta del Dio Maiale, i sogni di quella notte furono tutte le portate di un cenone di Capodanno, completamente a base di maiale!
Il mattino si alzò prima di Wadi e corse a farsi una doccia, aveva l’impressione che lui potesse sentire l’odore di carne impura di cui per buona parte della notte si era nutrita, ma questa fu una riflessione che ebbe dopo, mentre l’acqua le scorreva addosso, sul momento, appena alzata, aveva solo avuto una sensazione di sporcizia sulla pelle.
Si strofinò a lungo tutto il corpo con la spugna vegetale, la schiena con la striscia di canapa a due mani e, sbattendo i gomiti contro le pareti della doccia, rimpianse la spazzola di setola che usava prima di conoscere Wadi e, di nuovo, si sentì in colpa, le sembrava di tradirlo.
Quando a tavola per la colazione, però, vide il caffelatte e le fette biscottate con burro e marmellata, ebbe un moto di stizza, le tornò in mente il “brunch” e quelle uova fritte, bianche, ma appena rapprese, nel cui tuorlo gli altri immergevano i crostini e la pancetta croccante che piegavano con cura, con forchetta e coltello, prima di portarla alla bocca con gusto evidente. Anche lei aveva partecipato a quel piacere anche solo guardando.
La colazione fu pesante, lei rispondeva a monosillabi e Wadi, stupito, chiedeva cosa non andasse, se aveva dormito, se aveva mal di testa…
Finalmente lui uscì e lei telefonò in ufficio che avrebbe tardato, perché la lavatrice le aveva allagato la casa.
Per distendere un poco la tensione fece un giro di ripasso alla casa, sprimacciò il divano e disfò il letto, cercando in quei gesti di ritrovare il senso della quotidianità, dell’appartenenza alla sua realtà.
Aveva sempre pensato di essere una persona razionale, passionale, ma razionale. Eppure questa storia del Maiale le stava sfuggendo di mano, possibile che al solo nominarlo avesse l’acquolina in bocca?
Insomma bisognava esorcizzarlo si disse, si sarebbe comperata un cacciatore di cavallo e se lo sarebbe mangiato interamente da sola, adesso.
Si vestì in fretta come non mai, il trucco non fu che un’ombra sugli occhi, sfumata con le dita in ascensore.
Alle otto e trenta era davanti alla saracinesca che saliva, alle otto e quarantacinque era a casa ad affettare il salame, con il francesino spalancato, pronto ad accogliere le piccole fette, si accorse che le tremavano le mani e si sedette. Un bicchiere d’acqua? No meglio un chinotto. Ne bevve un intero bicchiere a piccoli sorsi, ma lo sguardo continuava a fuggire al salame sul tagliere, finalmente riuscì a calmare la sua ansia e lo tagliò a fette spesse, aveva piccoli lardelli bianchi sparsi che facevano un forte contrasto con la carne scura.
Aveva scelto il cacciatore di cavallo perché così le sembrava di tradire meno Wadi, cercò di dimenticare che sapeva benissimo che i lardelli bianchi erano di maiale, e invece erano proprio loro, sciogliendosi sulla lingua a darle più piacere. Sì, era un buon salame, ma si sentiva che era di cavallo, la carne un poco dolce, era più secca intorno alla fetta e quasi fresca nel mezzo, era una cosa diversa da quello che aveva sognato. Aveva sbagliato! Per esorcizzare il Dio Maiale avrebbe dovuto prendere un salame di Puro Suino o coppa o prosciutto o culatello.
In pochi minuti era di nuovo in strada, entrò nel supermercato e al bancone della salumeria prese un etto di tutti i salumi di maiale su cui le caddero gli occhi.
Tornò a casa, però, in preda a una agitazione confusa, pensava a Wadi, pensava ai loro progetti di avere in figlio, pensava alle sue sensazioni di quei giorni, pensava ad Allah, per lo meno a come glielo aveva rappresentato Wadi, che, pur non essendo praticante, obbediva ai precetti di astensione dall’alcool e dal maiale, pensava al Dio dei suoi genitori, quello cristiano, cattolico, apostolico, romano e al digiuno quaresimale, ah ecco perché non c’era coda in salumeria, erano tutti alla pescheria, era venerdì di Pasqua!
La cosa la rasserenò, il suo non era uno sgarbo ad Allah, ma, democraticamente, anche al Dio cristiano, Wadi non aveva da prendersela, da quel momento il suo Dio sarebbe stato il Maiale, la prendessero un po’ in saccoccia tutti gli altri. La pervase una sensazione di pace che la accompagnò fino in casa, aprì con calma ogni involto e da ciascuno prese una fettina, ogni fettina con un pezzetto di pane mangiò con gusto, percepì il sacrificio del Maiale e quello del Grano, quello del Lievito e quello del Sale, sentì che tutti loro vivevano in lei.
Andò in ufficio con una serenità, nello sguardo e nel cuore, che le sembrava di non avere mai avuto, aveva riposto con cura i salumi nel frigo e si era fermata al bar a farsi un calice di rosso, alle dieci del mattino il barista l’aveva guardata stupito e aveva aperto una bottiglia di Raboso, lei ne aveva apprezzato il carattere robusto e sanguigno, aspro e dolce e si era avviata al metrò sorridente e leggera.


Capitolo V
I riflessi cangianti della seta

Quella sera tornando dall’ufficio Erminia si era fermata in una enoteca a aveva preso una bottiglia di refosco dal peduncolo rosso, raboso non ne aveva trovato, non aveva ascoltato molto della disquisizione dell’addetto, aveva colto però che quello era il vino che più gli somigliava.
Aprendo la porta, con solo due mandate, aveva capito che Wadi era già rientrato e le era andata incontro allegra. Lui era davanti al frigorifero con in mano un cartoccio di coppa aperto e l’aria schifata. Lei entrando aveva posato la bottiglia sul mobiletto e sorridendo gli aveva preso il cartoccio dicendogli:- Non è per te amore, l’ho preso per me.
In quel momento lui vide la bottiglia di vino e il suo sguardo si fece cupo. La guardò con disprezzo e andò in sala.
Erminia aveva dalla sua la consapevolezza di essere nel giusto, prese una fettina di coppa con due dita e se la calò in bocca dall’alto, aprì la bottiglia di vino e se ne versò un bicchiere. Poi si preparò un panino con il prosciutto di Praga e un velo di senape, e si mise a mangiare con gusto.
Wadi doveva essere perplesso, pensò Erminia, lei, appena aveva colto la sua contrarietà alla vista di maiale e alcolici, li aveva banditi dalla casa e dalla vita, ma ora era tempo di cambiare se voleva, e, se non voleva, bene! Non era certo il caso di farci un figlio! Bisognava affrontare la cosa, subito.
Entrò in sala con un vassoietto con il panino e il bicchiere, sorridendo, e gli disse che nessuno lo avrebbe obbligato a mangiare maiale e a bere vino, ma che nessuno avrebbe impedito a lei di farlo e se avessero avuto un figlio avrebbe mangiato ciò che avesse voluto, senza divieti ideologici o religiosi.
Wadi era sorpreso da questa sua presa di posizione, lei non aveva mai manifestato disagio di sorta per quelle rinunce, tanto che lui aveva pensato fosse qualcosa di naturale; nonostante le prove contrarie, nei ristoranti e a casa d’altri, si era trovato a pensare che, forse, non tutti gli italiani bevevano alcolici e mangiavano maiale, non si era fermato a riflettere più che tanto sulla cosa, aveva accettato la cosa come naturale.
Erminia lo guardava, serena, vedeva nei suoi occhi uno smarrimento che le fece male, ma diede un morso al panino con convinzione, lo vide rabbrividire, poi con un sorso di vino deglutì il bolo gustoso, sentì il tannino leggero sul palato e prese un altro sorso, per sgombrare la bocca e gustare più pienamente, vide in quel momento che lui le leggeva negli occhi il piacere ed era geloso.
Si avvicinò a lui e le prese la mano, se la portò alle labbra e la baciò, se la fece scorrere sul viso e con essa si carezzò, sentì la sua rigidezza e gli si accostò, lui rimase inerte, confuso; lei rimase al suo fianco per un tempo infinito, credeva di sentire i sentimenti di Wadi combattere tra loro, le sue abitudini scontrarsi con la sua logica disincantata e prese l’iniziativa, lo baciò, con le labbra che ancora sapevano di vino. Lui fermò il respiro in un rifiuto, poi si lasciò andare e respirò quei profumi di frutti di bosco, stupito socchiuse le labbra e assaporò quel che di aspro e di tannino era ancora sulle labbra di lei e la baciò.
Non fu facile per loro rispettare e capire quel che fino allora avevano ignorato, seppellito, ma, come la trama e l’ordito della seta, diversi e contrastanti, danno riflessi cangianti e preziosi, così loro, accettandosi per intero, divennero più della somma delle loro parti, più di quel che, pur bello, erano stati.

Milano10 Aprile 2009